lunedì 22 giugno 2020

C'è clima e clima


Il clima post-Covid secondo Francesco Bellusci



Francesco, ci parli un po' di lei.

Sono nato a Senise (PZ), 52 anni fa, con un cognome di chiara origine arberesch. Da giovanissimo  mi interesso alla critica letteraria, curando un’antologia sulla poesia e narrativa del ‘900 lucano, con scritti di Antonio Lotierzo, Raffaele Nigro, Antonio Piromalli. Coltivo un’amicizia intellettuale intensa col poeta Pasquale Totaro-Ziella e a Frascati conosco e frequento per un po’ Vito Riviello. Infatti, dopo gli studi liceali, mi iscrivo al corso di laurea in Filosofia a “La Sapienza” di Roma, e arricchisco il mio percorso anche con una borsa di studio allo “Sprachinstitut” di Tubinga, in Germania, e con un Master in comunicazione con Ateneo Impresa di Roma, che mi consente, agli inizi, di lavorare nel mondo della consulenza e della formazione. Nell’ambiente multiculturale di Tubinga, conosco una studentessa di pianoforte di Tokyo, che dopo alcuni anni diventerà mia moglie e con la quale avremo un figlio di nome Ken Walter. Il destino vuole che il pomeriggio si eserciti al pianoforte, in alcune stanze dello “Stift” evangelico dove studiarono Teologia i tre compagni Hegel, Hölderlin e Schelling! Non manca, contestualmente, la passione per la politica, che mi porta alla militanza in organizzazioni giovanili di partito e a fare il consigliere comunale. Dopo il concorso, nel 2006, comincia la mia carriera di insegnante di filosofia e storia al Liceo classico “Orazio Flacco” di Potenza, che oggi continua al Liceo classico “Isabella Morra” di Senise. Da quel momento, i miei interessi volgono decisamente alla saggistica, con una preferenza per la filosofia contemporanea francese e tedesca. Dopo una collaborazione alla collana “Riga” della Marcos y Marcos (Milano), dedicata ai maestri del Novecento, con un saggio sul filosofo e storico della scienza Michel Serres, scrivo stabilmente per il blog culturale Doppiozero, diretto da Marco Belpoliti, come autore di recensioni e di ritratti di pensatori o di “classici” del pensiero. Svolgo anche attività di cura e traduzione dal francese e dal tedesco (prossimamente, uscirà l’edizione italiana de L’avventura del metodo di Edgar Morin, da me curata, per Raffaello Cortina di Milano). Di recente, ho scritto un saggio su Pasolini semiologo del cinema, per una collana della Marsilio, dedicata al poeta e cineasta italiano, e nel marzo scorso esce una mia intervista sul futuro della filosofia e sulle metamorfosi dell’umano, in un volume curato da Maria Frega e Francesco De Filippo, per la Giunti, che ha raccolto, nello stesso volume, i contributi di altre voci come quelle di Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Marino Niola, Telmo Pievani.
   
Come  ha vissuto questa fase di distanziamento a causa della pandemia da covid-19, come ha interferito con la sua professione?

Diciamoci la verità. Prima, si viveva come in una sorta di incantesimo “futurista”, con la sensazione di essere sul treno di un progresso accelerato e inarrestabile, di cui l’economia, abbinata alla tecnologia, era il conducente principale. Quel treno sembra imporci non solo una spinta frenetica ai consumi, ma soprattutto una logica della prestazione continua. E da questo punto di vista, contava poco vivere in una città o nell’area interna di una piccola regione. Potevamo lamentarcene, ma alla fine ci arrendevamo con un senso di impotenza, di ineluttabilità, di necessario adattamento.
Abbiamo scoperto, invece, che la corsa di questo treno si può interrompere o che può essere sospesa! Il virus ha parassitato la nostra dimensione globale, la nostra mobilità planetaria, così ci ha imposto la sua mondializzazione frenando la nostra, costringendo nello stesso periodo milioni di persone nel mondo a stare a casa, a non incontrarsi, a non prendere più aerei o treni ad alta velocità.. Ero in procinto di prenderne uno, per Milano, proprio nei gironi in cui è scoppiato il caso Codogno. Anche per me, quindi, nello choc iniziale, è stata l’occasione per una pausa di riflessione, di ripensamenti, e perché no, di disintossicazione del superfluo, del frivolo, come per molti.  
Da insegnante, ho avuto la possibilità di lavorare, anche da casa, con la famosa “didattica a distanza”, che sarebbe meglio chiamare didattica digitale. Come è meglio parlare di “distanziamento fisico” e non di “distanziamento sociale”, perché, mai come in questi casi, la società non si dissolve, ma seppure in negativo, fa sentire la sua presenza con il controllo, a volte la coercizione, ma anche con il richiamo alla responsabilità individuale e con l’intensificazione di ciò che alla fine la caratterizza, nel fondo: la comunicazione (è stato l’exploit dei webinar!).
I nostri corpi erano divisi e ancora lo resteranno, in parte. Questo provoca in me, come in tutti, credo, un turbamento e ci rende inquieti di fronte al ritorno parziale alla normalità, che sarà ancora pesantemente medicalizzata, igienizzata, a scuola, nell’università, nei cinema, nelle sale da convegno. E per le strade il profumo del confinamento e del distanziamento si respirerà ancora. Giocheremo tutti a considerarci come vettori potenziali di contagio e a irrigidirci in un ruolo, ad auto-inibirici, come accade al cameriere di cui parla Sartre ne L’essere e il nulla, manifestamente meccanico nell’interpretare il suo ruolo. Lo dovremo fare, se continua l’emergenza e l’incertezza sui rimedi sanitari al problema, ma sarà importante avvertire il disagio di questa situazione e la sua provvisorietà, perché ci ricorderà che non possiamo ridurci a essere solo “potenziali malati” e che il nostro modo di essere è proprio il rigetto a cristallizzarci in una una dimensione (Sartre avrebbe detto all’“in-sé”), tanto più in quella di esseri che pensano solo alla sopravvivenza biologica.
D’altra parte, con l’esperienza del confinamento, non ci siamo resi conto che “stare a casa” non significa automaticamente “sentirsi a casa”? La nostra “casa” è il progetto di vita con cui ci affacciamo al mondo e lo abitiamo, la trama delle relazioni che tessiamo, peraltro potenzialmente illimitate, dal momento che oggi possiamo attingerle e custodirle anche attraverso la Rete. E, in questo, il corpo gioca un ruolo chiave, è il vettore della nostra mobilità verso il mondo e nel mondo. Come dice il filosofo francese Jean-Luc Nancy, i corpi sono sempre sul punto di partire. E la sofferenza di questo confinamento, comunque necessario, non poteva non lasciare il suo stigma proprio sul corpo, costretto a una forzata immobilità.


 Come è cambiata la sua relazione con i social media?

Non molto, perché li usavo abitualmente anche prima. Ho assistito, anzi, con soddisfazione agli effetti di bonifica che il clima psicologico della crisi ha avuto, seppure parzialmente, su certi stili comunicativi improntati all’eccesso o a intenti manipolatori, che sembravano prevalenti su queste piattaforme. Hanno recuperato la funzione originaria di condivisione, di socializzazione, anche delle ansie, sono serviti a esorcizzare la siderazione provocata dallo choc.  Ne ho potuto apprezzare anche qualcun altro in particolare, più fruito dai giovanissimi, come Instagram, perché conferma il potere crescente delle immagini e della cultura visuale nella nostra società, su cui mi capita di riflettere ultimamente.
Walter Benjamin parlò di perdita d’aura dell’opera d’arte, una volta riprodotta in immagini fotografiche. Viceversa, il nostro Leonardo Sinisgalli, già negli anni Quaranta, parlò della fotografia e del cinema come “macchine oniriche”, perché con la profusione e la fruizione di massa delle immagini hanno “arricchito” i sogni, anche dei membri di classi sociali povere, non avvezze al consumo di libri o di musei. Immagino quale sarebbe stato il suo entusiasmo di fronte ai media digitali!
Direi, forse, che il blocco delle attività e il confinamento domestico hanno giovato di più agli adulti per scoprire e usare meglio questi strumenti, di migliorare in quelle competenze di information o media literacy, che i nativi digitali imparano da sé e per i quali costituiscono quasi un “sapere tacito”.


Quale autore o libro l’ha accompagnata?

Confesso di aver scritto più di quanto non abbia letto, nei mesi scorsi, perché dovevo concludere un progetto iniziato poco prima della pandemia. Molte letture che ho fatto, quindi, erano ricerche funzionali alla prosecuzione di questo progetto. Volevo anche intervenire sul presente, e l’ho fatto con un articolo sull’Europa, la sua solidarietà interna, il futuro dell’integrazione, messa a dura prova dalla crisi sanitaria e dal suo impatto economico
Tuttavia, non mi è mancata l’occasione di fare qualcuna di quella che viene chiamata lettura del tempo libero. La mia scelta è andata su Patrick Chamoiseau, scrittore della Martinica francese, e su Boualem Sansal, scrittore algerino. Trovo interessanti queste voci alla “periferia” dell’Occidente, diciamo, perché esprimono una prospettiva più planetaria e cosmopolitica di quanto non faccia la letteratura “occidentale”, a volte, troppo ripiegata sui microcosmi sociali, esistenziali, nevrotici, delle nostre società affluenti. 

Un evento, come quello in corso, in che termini e in che misura ha modificato il clima culturale, in particolare a livello locale? Possiamo parlare di un arricchimento o di un impoverimento del clima culturale locale?

La cultura è chiamata a  dare un contributo nell’accompagnare il passaggio al dopo-confinamento, che sarà ancora pieno di incertezze, ma con la certezza che il virus ci costringe a inventare, a ridisegnare la mappa dei valori e degli stili di comportamento, a trasformare, se mi consente il gioco di parole, quei processi di trasformazione globale che adesso si sono solo rallentati, ma che presto riprenderanno inevitabilmente la loro marcia. Questo trauma si deve convertire in una presa di coscienza nuova e in una nuova resilienza, e la cultura può fare molto. Anche perché si tratta di una crisi sistemica e, come tale, è aperta a diversi esiti possibili che dipendono dall’interazione di tanti e irriducibili fattori. È vero, il negazionismo, che prima trionfava sulle disfunzioni della mondializzazione o sul cambiamento climatico e le micro-catastrofi che lo accompagnano, ha ricevuto un duro colpo, ma le forze reazionarie sono sempre in agguato, potranno sempre dirci che è stato soltanto un incidente di percorso e che la rotta non cambia. E la prima funzione della cultura è reagire contro la reazione!
Mi chiede se è un arricchimento per il livello locale? Ma certo! Almeno come opportunità. Quello che è accaduto ha fatto percepire a milioni di esseri umani, nelle propria vita quotidiana, simultaneamente, la stessa fragilità, lo stessa minaccia, lo stesso destino. Mai, come adesso, si sono connessi il locale e il globale e sono apparsi, alla coscienza dei singoli, nella loro interdipendenza. Sono i germi di una empatia, di una solidarietà globale, di una sensibilità umana rigenerata, che la globalizzazione solo dei mercati non produce. È qualcosa di inedito che ha bisogno di nuove narrazioni, anche e forse soprattutto a livello locale, e che possono forgiarsi e circolare attraverso la poesia, l’arte, la letteratura, la filosofia, ma anche eventi di spettacolo, museali, nuovi. Lo ha dimostrato la grande risonanza di una poesia come Novemarzoduemilaventi di Mariangela Gualtieri, proprio per come è riuscita, nei momenti più drammatici della crisi, a interpretare l’angoscia pensosa che afferrava tutti.
E, ancora, la cultura può fare molto per aiutarci a sostenere il peso dell’ignoto e dell’imprevedibile che ci si è spalancato di fronte, dopo che per secoli abbiamo creduto di essere i padroni della natura. Ora, abbiamo capito che quell’ignoto e quell’imprevidibile non diminuiscono, non arretrano, ma si estendono, quanto più avanza la scienza.
  
Quali domande sulla società e sulla vita ha sollecitato in lei questa esperienza?

È fondamentale porsi queste domande, perché le crisi sono occasioni di miglioramento, di nuovi slanci, ma possono anche indurre tentazioni regressive, la ricerca di capri espiatori e riproporre false mitologie. Su un piano oserei dire metafisico, come tutti, sono stato condotto dalla crudezza dolorosa degli avvenimenti a pensare la vita in termini meno “spiritualistici”. La vita, compresa quella degli esseri umani, è un campo di battaglia tra parassitismo e simbiosi, che accompagnano sempre le relazioni tra viventi. E nessuna protesi tecnologica, al momento, può proteggerci da questo. Noi stessi siamo parassiti della Terra, che sono peraltro giunti a diventare forze di alterazione geologica, come affermano i sostenitori dell’Antropocene, con potenziali conseguenze nocive per noi stessi. Una grande vulnerabilità si accompagnerà alla nostra immensa potenza tecnologica, e anche se questa si accrescerà, sarà sempre più sofisticata, in ogni ambito compreso quella biomedico. Ma ecco, una nota confortante. Nei momenti in cui la crisi ci ha colto di sorpresa, ha mostrato falle nel sistema sanitario o un deficit di dotazione tecnologica, questi sono stati compensati dal capitale sociale, umano, straordinario di infermieri e medici! Questo mi porta a pormi un’altra domanda, meno metafisica questa volta: cosa fanno emergere esperienze collettive così drammatiche in una società? Beh, direi senz’altro il valore del vivere-insieme, la tendenza a sentirci soggetti solo nella cura, nella responsabilità, nella solidarietà per gli altri, ad avere la certezza di vivere in un mondo se di questo mondo ne parliamo con gli altri e se in questo mondo vi agiamo con gli altri. Il modo di sostenerci a vicenda in ogni ambito, non solo quello delle cure sanitarie, di resistere insieme, ha fatto venir fuori la volontà di preservare questo “tra-noi”, il tesoro di questa cura reciproca.
Hannah Arendt, la celebre filosofa della banalità del male, era molto sensibile a questo tema. Questo tesoro lo chiamava consapevolmente con i termini un po’ desueti di “felicità pubblica” o “libertà pubblica”, mutuati dal costituzionalismo moderno. Ma, in effetti, voleva rimarcare che non ci sentiamo veramente liberi o felici, nella dimensione della privatezza, se restiamo schiacciati sull’interesse privato. Non lo abbiamo forse verificato in tutti gli sforzi che abbiamo fatto nel tenere in vita questo “tra-noi”, anche a distanza? Ma è un tesoro fragile, sempre minato dal male che pure cova nelle nostre relazioni e nelle nostre società, come ha dimostrato il caso terribile e ripugnante della morte di George Floyd. Ora, la sfida è renderlo durevole.

Quale autore/artista/musicista lucano pensa che possa interpretare questo momento storico?

Torno di nuovo al poeta-ingegnere di Montemurro! Infatti, una delle immagini più stupefacenti di questa crisi è stato il vuoto delle strade, dei parchi pubblici,  in megalopoli come Milano, New York, Londra, durante il periodo del confinamento. Spazi che solitamente vedevamo gremiti da “folle solitarie” e torrenziali. E il mio pensiero corre immediatamente a “Horror vacui”, l’appendice dello strabiliante ed eteroclito “zibaldone” di pensieri che è il Furor Mathematicus di Leonardo Sinisgalli. Quest’orrore del vuoto è  uno dei fantasmi che la cultura e il senso comune in Occidente hanno sempre cercato di rimuovere, come la morte. Perché scelgo questo scritto, in cui la mente di Sinisgalli si muove come un nomade tra letteratura, filosofia, scienze, meccanica e aneddotica? Sinisgalli lo scrive nell’autunno del 1943, nella situazione drammatica della Roma occupata dai nazisti, dopo l’armistizio di settembre, in condizioni di vita sospesa, di vulnerabilità, di pericolo, emotivamente affini a quelle, oggi, vissute da noi.  Si può leggere questo testo di annotazioni, di meditazioni e di aforismi (non a caso molti sono ideati, guardando dalla finestra della casa romana, come abbiamo fatto noi nei giorni del distanziamento), come le tante facce di un prisma dove possiamo specchiarci, trovarvi simmetrie o rimandi con gli stati d’animo o le riflessioni che si sono insinuate nella nostra mente, in questo periodo. Per citarne qualcuna, penso a un passaggio di sapore spinoziano come: “La sostanza della verità è unica: forse è la nostra necessità di esistere, la necessità di esistere di ogni cosa”, e la mente corre al modo in cui queste necessità, quella nostra e del virus, entrano in collisione e a come, in natura, buono e cattivo si relativizzano.  Oppure: “Più dei regni: animale, vegetale, minerale, più dei tre gradi di esistenza: organico, inorganico, spirituale, c’interessa la divisione del mondo in una sfera visibile e una sfera invisibile”, e la mente corre all’ago invisibile e sottilissimo (il Covid-19) che ha improvvisamente e incredibilmente bucato la mongolfiera della globalizzazione trainata da scienza, tecnica e profitto. Oppure, ancora, quando Sinisgalli si chiede: gli uomini fanno macchine come gli uccelli fanno le uova, l’ostrica fa la perla, la chiocciola il guscio?. In questo caso, il grande poeta di Montemurro, indirettamente, ci fa capire che la transizione ecologica che tutti auspichiamo, nello stile di vita e nel modello di sviluppo, non ha niente a che fare con ritorni immaginari a uno “stato di natura” idealizzato, e ci fa riflettere sulla complessità evolutiva degli esseri umani. Libro straordinario e attualissimo! Quello che mi colpisce, poi, di queste pagine, è l’umanesimo sobrio, il disincanto mai cinico, aperto alla speranza e all’ironia, che trovo una cifra della lucanità. Mi viene per questo naturale accostare Sinisgalli alla grande tradizione dei moralisti francesi come Montaigne.

 Cosa pensa della didattica a distanza, si ridurrà la resistenza alla tecnologia nella comunicazione o addirittura ne conseguirà una più diffusa colpevolizzazione? Si troverà un equilibrio tra reale e virtuale? E’ necessario trovarlo? Per quale fine?

È importante trarre tutte le lezioni da questa crisi e dalle risorse che si sono rivelate e si riveleranno strategiche, per affrontarne le conseguenze immediate e future. Abbiamo vissuto un confinamento 2.0 o 3.0, non un semplice confinamento, ricordiamocelo. Internet si è confermato il passo straordinario in avanti, che ha consentito di rendere la comunicazione una utility, come l’elettricità, che tutti abbiamo in casa. Abbiamo potuto surrogare la presenza con la telepresenza, con la teleformazione, con il telelavoro.. Preferisco usare questa espressione, perché trovo improprio dire  “didattica a distanza” o “lavoro a distanza”, a proposito di un mezzo che ha abolito la distanza, come mai era successo nella storia dell’umanità! Certo, abbiamo sperimentato una modalità che non può e non deve sostituire quelle precedenti, ma abbiamo anche compreso quanto fosse sottoutilizzata nel passato. Solo una logica inerziale e ottusamente burocratica,  ci portava a fare magari una riunione in presenza, che, organizzata e svolta in telepresenza o in video presenza, consente di ottimizzare tempo, energia e di inquinare forse di meno!
Quindi, la prima lezione che possiamo trarre è che per noi sono vitali tanto la biosfera quanto l’infosfera, ed entrambe meritano la nostra cura. Solo un ecologismo malinteso e fondamentalista (penso ai survivalisti che imparano a vivere in ambienti selvaggi, senza alcun comfort tecnico della modernità) fa dimenticare che noi, Homo sapiens, siamo al cento per cento natura e siamo al cento per cento cultura.
Quindi, sicuramente va trovato un equilibrio, una soglia tollerabile, tra presenza e telepresenza, soprattutto per preservare la qualità dei legami. Non tanto tra reale e virtuale, perché l’infosfera sta già cancellando di fatto questo confine, anche nella percezione quotidiana. Probabilmente, questo scomparirà del tutto, quando le nuove generazioni non riusciranno a concepire com’era fatto il mondo al tempo dell’analogico, così come noi non abbiamo alcun ricordo del mondo senza elettricità.
Lo stesso vale per la didattica digitale, che non si riduce alla emergenziale “didattica a distanza” e che restava una scommessa per trasformare i modi di insegnare e di apprendere, anche prima della crisi. Questa esperienza potrà far riflettere su come accelerare una integrazione tra didattica digitale e didattica tradizionale, al di là delle situazioni emergenziali.
Sopraffatti dall’emergenza e forzati a fare tutto da casa, docenti e studenti, è normale che il mood prevalente sia improntato a un rifiuto quasi “romantico” di questa nuova strumentazione e di queste nuove modalità e a una mitizzazione nostalgica del passato, ma credo che nei prossimi mesi e soprattutto quando sarà finita l’emergenza, potremo più serenamente soppesare ciò che vi è stato di innovativo, anche in questi momenti difficili, e utile da conservare anche per il futuro. Già prima di questa crisi noi abitavamo sempre meno lo spazio materiale, metrico, cartesiano, conteso sempre più dallo spazio web, dove peraltro i giovani vivono, s’incontrano e attingono abitualmente le loro informazioni.
Ma, senza entrare qui in un discorso lungo e complesso, è chiaro che il vero cambiamento della scuola concerne la frontiera dei contenuti. Secondo me, bisogna capire che l’innovazione pedagogica passa da lì e non è né sinonimo di uso del digitale, fine a se stesso, né può dipendere dal carisma del docente, che rimane una dote individuale e non la si può pretendere come un requisito professionale. Le faccio un esempio: noi navighiamo nella Rete, ma non mettiamo ancora in rete le discipline, i saperi, non vediamo la multidimensionalità dei problemi. C’è ancora troppa poca interdisciplinarità e transdisciplinarità nella scuola, nonostante la buona volontà. Come capire, ad esempio, questa crisi o far capire questa crisi ai ragazzi, se ognuno resta “confinato” non solo a casa, ma nella sua disciplina, nel suo programma curricolare? Il mio liceo mi ha dato la possibilità di fare una programmazione trasversale, per entrambi gli indirizzi, classico e scienze umane. E allora, ho sperimentato un ciclo di videolezioni intitolato: «La crisi della pandemia come crisi planetaria e policrisi». Abbiamo preso spunto ora dalla poesia della Gualtieri, ora dal discorso rivolto all’Italia dalla presidente della Commissione europea von der Leyen, ora da resoconti di psicologici clinici, per poi esplorare le dimensioni della crisi e la loro interconnessione, con l’ausilio di nozioni di storia, sociologia, filosofia, psicologia, geopolitica, biologia evolutiva.. I ragazzi si trovano molto a loro agio con approcci multidisciplinari, che collegano e contestualizzano, perché la loro mente di nativi digitali è abituata più a connettere che ad astrarre, e si entusiasmano quando percepiscono il momento preciso in cui la massa di informazioni, che li sommerge, finalmente si trasforma in conoscenza! Un tempo rischiavamo di restare ignoranti, senza avere accesso alle informazioni. Oggi rischiamo di diventare ignoranti, se restiamo solo “informatissimi”! La missione del docente del futuro è di tenere viva questa coscienza nei ragazzi.


Antonella Consoli, di Lagonegro (PZ), l'anno scorso ha vinto la prima edizione  2019 del Premio IAI –Istituto Affari Internazionali di Roma, per le scuole superiori di tutta Italia e io sono stato il suo docente tutor per il concorso, oltre ad aver suggerito io ovviamente alla ragazza di partecipare con un elaborato sul rapporto tra democrazia e digitale. Una bella soddisfazione lucana

Quale “messaggio” vorrebbe inviare ai giovani lucani, in relazione alla problematica antica del loro allontanarsi dai confini regionali?

Il messaggio è di non inchiodarsi pregiudizievolmente né al: “Resto qui, costi quel che costi!”, né al: “Da qui devo assolutamente scappare!”. Un giovane lucano è anche un cittadino europeo e quindi è giusto che pensi l’orizzonte delle sue chance di autorealizzazione dentro questa cornice e a partire dalle vocazioni individuali. Ho sempre trovato bizzarre politiche che si pongono esplicitamente lo scopo di contrastare la fuga di cervelli, l’emigrazione per lavoro... che senso hanno nello spazio comunitario di libera circolazione delle persone e dei lavoratori?!  
D’altra parte, non vedo quale altro messaggio poter rivolgere a generazioni che non vivono più tanto di appartenenze (regionale, nazionale, religiosa, politica..), ma sono la generazione degli “individui” per antonomasia.


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